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Esperienze di ricostruzione delle difese del campo mobile Romano
Traduzioni: english (without historic notes)
Premessa storica
L’accampamento mobile era forse l’elemento più caratteristico della macchina bellica romana.
Virgilio1 fa della costruzione di un campo fortificato il primo atto di Enea appena sbarcato nel Lazio. Nel 280 a.C. Pirro, osservando un campo romano ad Eraclea, deve riconoscere che i costruttori di un campo così organizzato non possono essere definiti barbari2.
Per tradizione e per pratica quotidiana un esercito romano repubblicano non poteva fermarsi per la notte, o effettuare una sosta di una certa durata, se prima non aveva realizzato un campo fortificato in grado di accogliere tutti gli uomini e i bagagli al seguito. Questa operazione doveva essere eseguita in ogni caso, perfino sotto attacco nemico, destinando una parte dell’esercito alla difesa di quanti lavoravano alla costruzione del campo. Anche le giornate di marcia impiegate da un esercito venivano espresse in termini di accampamenti costruiti (“quartis castris” ad esempio significa: dopo quattro giornate di marcia).
Il campo mobile fortificato aveva una evidente funzione tattica, riconducibile all’ottenimento di una serie di importanti vantaggi:
Nonostante la cura e l’attenzione per garantire l’efficacia delle misure difensive, il campo di marcia manteneva tuttavia una chiara vocazione offensiva: la sua inesorabile realizzazione alla fine della giornata di marcia equivaleva agli occhi del nemico ad un segnale di occupazione progressiva e permanente del territorio, con chiari riflessi negativi sul morale e sulla volontà di resistenza.
Il campo di marcia era la naturale base di partenza per una strategia di aggressione, coerentemente con la dottrina e la filosofia tattica dell’esercito romano, che prevedeva l’immediato attacco frontale delle forze nemiche, anche in eventuali condizioni di inferiorità numerica: gli accessi al campo, pur realizzati e presidiati con cura, erano infatti concepiti per consentire rapide e massicce sortite delle truppe; la notevole ampiezza dell’intervallum, lo spazio compreso tra le tende più esterne e il terrapieno perimetrale, era studiata non solo per offrire una fascia di protezione da eventuali dardi provenienti dall’esterno, ma soprattutto per consentire un comodo e rapido schieramento delle truppe per uscire ed affrontare il nemico già in ordine di battaglia.
Le descrizioni dei campi mobili non mancano nella letteratura classica. Polibio3 descrive in modo piuttosto dettagliato le dimensioni, le fasi di realizzazione e l’organizzazione interna di un campo consolare di epoca repubblicana; Flavio Giuseppe4 fornisce altri preziosi particolari relativi al periodo del primo secolo, e infine in avanzata epoca imperiale lo Pseudo-Hyginus nel suo meno noto “De
Munitionibus Castrorum” fornisce un vero e proprio manuale per la costruzione del campo, ad uso degli agrimensori militari, dal quale è possibile ricavare ulteriori preziose informazioni sull’organizzazione dell’esercito imperiale.
Non mancano peraltro nei maggiori autori classici (Livio e Tacito in primo luogo) interessanti e continui riferimenti ai campi mobili: lo stesso Cesare, che era un vero specialista nella scelta della collocazione strategica di un campo, ci ha lasciato numerose e alquanto precise descrizioni delle fortificazioni realizzate durante le sue campagne: resta ad esempio memorabile quella di Alesia5,
con il suo doppio fronte difensivo.
In realtà dall’esame delle fonti e dei resoconti storici la sistematicità della costruzione di un campo mobile alla fine della giornata di marcia non appare affatto scontata. Vegezio ad esempio osserva6:
“… la cognizione tecnica di queste attività è stata del tutto dimenticata: nessuno infatti, già da lungo tempo, ha più costruito accampamenti provvedendo a scavare fossati e a conficcare pali nel terreno. Sappiamo bene che molti eserciti si sono trovati in difficoltà per un assalto diurno o notturno della cavalleria dei barbari
…”
Ma anche in epoca altoimperiale e persino durante la repubblica la prassi era a volte dimenticata, e si ha la sensazione che venisse ripristinata ogni tanto proprio per richiamare all’ordine eserciti indisciplinati o privi di motivazione.
Le difese del campo
I dettagli esatti della costruzione delle difese di un campo mobile sono descritti con ragionevole precisione nel
De Munitionibus Castrorum (DMC) e sostanzialmente confermati nell’opera dell’ancor più tardo Vegezio7.
In particolare, secondo il DMC (§49), il fossato (fossa) deve avere una larghezza di almeno cinque piedi (circa 1,50 metri) e una profondità di almeno tre piedi (circa 90 centimetri); le stesse misure sono raccomandate da Vegezio8. Il fossato può essere realizzato secondo due profili di scavo: il tipo a “V”
(fossa fastigata) o il tipo “punico”. Il fossato a V presenta le pareti laterali inclinate specularmente verso il fondo dello scavo. Il fossato “punico” presenta la parete interna inclinata nello stesso modo di quella a V, mentre la parete esterna è perpendicolare al suolo, con l’evidente scopo di rendere più difficoltosa la ritirata degli assalitori.
Le risultanze archeologiche evidenziano che in entrambi i casi sul fondo dello scavo veniva di norma realizzato un fossetto di drenaggio a pareti parallele, con lo scopo non solo di tenere il fossato sempre pulito, ma anche di costituire un ulteriore ostacolo per gli assalitori.
Secondo Vegezio8, nel caso di un campo con prospettive di lunga permanenza, o in prossimità del nemico, le dimensioni dello scavo potevano essere portate fino a 9 piedi (3 metri) di profondità e 13 piedi (4 metri) di larghezza. Profondità e larghezza potevano essere ulteriormente incrementati in caso di necessità, con misure per consuetudine sempre dispari (11, 13, 15, 17 piedi).
Flavio Giuseppe9 si limita ad osservare che “… se è necessario all’esterno viene scavata una fossa profonda 4 cubiti [1,77 metri] e larga altrettanto…”
La terra scavata veniva accumulata sul lato interno del campo per formare un terrapieno rialzato (agger) che poteva essere rinforzato e consolidato con tronchi e rami d’albero, e infine spianato alla sommità per consentire lo stazionamento e il passaggio delle sentinelle. In presenza di terreno molto friabile o sassoso, l’agger poteva essere realizzato con pietre a secco, oppure, in mancanza di una quantità sufficiente di pietrame, anche con tronchi d’albero ricchi di rami, detti “cervoli”.
I cervoli, opportunamente accostati in modo che le ramificazioni laterali, intrecciandosi tra loro, contribuissero alla solidità della difesa, potevano essere usati anche nell’impossibilità di scavare fossati o di erigere terrapieni. Secondo la descrizione di Polibio10, ripresa anche da Livio11:
“…i Romani preferiscono pali con due, tre, al massimo quattro diramazioni, e che non abbiano i rami disposti alternativamente. Ne segue che i pali sono facilmente trasportabili, poiché un soldato ne può reggere anche tre o quattro insieme… Essi dispongono i pali così fittamente incrociati che non si riesce neppure a distinguere i tronchi, né a capire a quale tronco appartengono i rami che si vedono. Non è dunque possibile afferrare facilmente i rami, tanto sono fitti e intrecciati. Le punte sono molto ben acuminate,
cosicché, se pure si riesce ad afferrare un tronco, non è facile sradicarlo, sia perché ognuno è fissato a terra per conto suo, sia perché strapparne uno comporta tirarne fuori parecchi altri, tutti strettamente incrociati al primo. E se anche qualcuno riesce a strappare uno o due pali, la breccia è quasi impercettibile…”
Se non era possibile conficcare i tronchi nel terreno, potevano essere disposti orizzontalmente, opportunamente accatastati ed intrecciati.
Secondo il DMC per il terrapieno “… è sufficiente uno spessore di otto piedi e un’altezza di sei piedi … ”, e sembrerebbe che un terrapieno di queste dimensioni possa in realtà essere realizzato solo con fossati di dimensioni ben superiori a quelle minime indicate.
Vegezio però sottolinea che nella costruzione del terrapieno devono essere
“… formate siepi o interposti tronchi e rami d’albero per fermare la terra…”, il che lascia pensare che il terrapieno venisse sistematicamente rinforzato con qualunque tipo di materiale (pietre, rami, tronchi), per migliorare comunque la protezione del campo, a prescindere dalla natura del terreno.
Sulla parte esterna del terrapieno si realizzava infine una palizzata (vallum) o un piccolo parapetto di protezione. Per un campo mobile il
vallum poteva essere realizzato con mezzi di fortuna reperiti sul posto, ma difficilmente i tempi richiesti dalla realizzazione di un campo di marcia permettevano operazioni aggiuntive come il taglio e la lavorazione di legname.
Numerosi scrittori riportano l’uso di pali di legno con entrambe le estremità appuntite, detti
vallis o pila muralia, alti circa 1,50 metri, già pronti e trasportati a spalla o su muli.
Dione Cassio12 menziona il trasporto di ben sette di questi pali ciascuno da parte dei legionari di Scipione a Numanzia. Anche Cesare13
e Livio14 vi fanno accenno, anche se non appare ovunque evidente che i valli facessero abitualmente parte della dotazione individuale di trasporto dei legionari.
Vegezio scrive di “… robusti pali di legno (sudes) che i soldati di solito portano con sé
…”, dove sudes sta per pali corti o pioli.
Alcuni di questi pali sono stati rinvenuti lungo il Limes germanico, e la loro forma alquanto ripetitiva fa pensare ad un uso piuttosto diffuso e standardizzato, adatto per proteggere sia istallazioni fisse che campi mobili.
In che modo venivano utilizzati questi pali? Alcune moderne ricostruzioni15
hanno proposto e sperimentato una soluzione consistente in una fila di valli infissi verticalmente e collegati da una corda.
Bennett e Gilliver ritengono invece che i valli venissero raccolti a gruppi di tre e utilizzati come dei
cavalli di frisia, o grandi triboli, ovvero chiodi a quattro punte; questo utilizzo spiegherebbe la caratteristica rastrematura della porzione centrale dei valli, fatta per consentire l’unione di più elementi e per facilitarne l’eventuale legatura; opportunamente ravvicinati, questi triboli costituiscono infatti un ostacolo temibile e difficile da rimuovere. Questa soluzione potrebbe costituire una spiegazione dell’“ericius”, o “riccio”, menzionato, ma non descritto, da Cesare16
e da Sallustio17.
Obiettivi della sperimentazione
La sperimentazione è stata condotta con i seguenti obiettivi:
1) ricostruire i tempi di realizzazione delle difese di un campo di marcia semplice, con un fossato di dimensioni minime (profondità di 3 piedi e larghezza di 5 piedi), in funzione della forza lavoro disponibile;
2) sperimentare le tecniche più efficaci di realizzazione dello scavo e del terrapieno e le modalità di impiego del personale;
3) mettere alla prova sul campo gli attrezzi e gli utensili ricostruiti sulla base delle evidenze archeologiche;
4) sperimentare l’efficacia difensiva delle diverse soluzioni.
Risultati della sperimentazione
1) Secondo le notizie forniteci da Polibio, in epoca repubblicana agli alleati veniva affidata la realizzazione dei lati lungo cui venivano accampati
(porta principalis dextra e sinistra), ai Romani quella degli altri due lati (porta pretoria e decumana), uno per legione. Ogni lato del campo, lungo 2150 piedi, veniva diviso in parti corrispondenti al numero dei manipoli incaricati. Se il campo doveva essere costruito in territorio nemico, con conseguente pericolo di attacchi improvvisi, solo una parte dei manipoli (ad esempio la metà o un terzo) veniva impiegata nei lavori, mentre gli altri manipoli e la cavalleria si disponevano all’esterno del perimetro del campo, in assetto di combattimento per fronteggiare possibili attacchi: nel caso in cui solo un terzo della forza fosse impiegato nella costruzione del campo (10 manipoli su 30), ogni manipolo lavorava su un fronte di 2150 / 10 = 215 piedi = 63 metri. Anche considerando che non tutti gli appartenenti al manipolo incaricato venivano impegnati contemporaneamente, risulta quindi che su un metro di fronte di scavo lavoravano mediamente quasi due uomini.
Anche nel DMC, relativamente al campo di epoca imperiale, si giunge ad estrapolare un valore medio molto simile: il campo dello Pseudo-Hyginus, adatto per accogliere tre legioni, quattro coorti pretorie e varie truppe ausiliarie (in totale circa 45000 uomini), presenta un perimetro di 7940 piedi. Ipotizzando una forza lavoro di 15000 uomini (circa un terzo del totale) si torna al solito valore di poco meno di due uomini per metro.
Quanto ai tempi di realizzazione, gli studiosi concordano su una durata delle operazioni di costruzione del campo di circa due o tre ore al massimo. Ipotizzando infatti un perimetro di 8000 piedi, e che un fossato a V di 5 piedi per 3 produce 0,7 mc di terra, si dovrebbero scavare 5600 mc, il che, considerando un volume di terra medio pro-capite lavorato di 0,5 mc/ora, richiederebbe 11200 uomini per effettuare il lavoro in un’ora o di 5000 uomini per due ore. Si tratta ovviamente di valutazioni di larga massima.
Si può ragionevolmente ipotizzare che in media due ore, o anche meno, fossero necessarie per la costruzione delle difese, operazione ritenuta sempre propedeutica alle altre, e il resto del tempo per la costruzione del campo vero e proprio. Del resto i tempi previsti durante una normale giornata di marcia (cinque ore di marcia più le soste) e le necessità di riposo non potevano consentire tempi più lunghi.
Nella nostra esperienza lo scavo è stato inizialmente pianificato su un fronte di circa 50 metri, comprendente una delle porte del campo (la
principalis sinistra) in corrispondenza della quale è stata realizzata una piccola
clavicola di accesso.
Il terreno su cui si è svolta la sperimentazione era molto morbido e perfettamente drenante, quasi totalmente privo di pietre e disposto in leggera pendenza, secondo i dettami suggeriti da Polibio e Vegezio. La tenuta del terreno si è rivelata accettabile anche durante le forti piogge abbattutesi durante i tre giorni della sperimentazione.
È apparsa subito evidente, in funzione della vicinanza di alcune aree boschive, l’utilità di predisporre degli sbarramenti supplementari (ad esempio rami appuntiti piantati in terra ed altro) per ostacolare e rallentare l’avvicinamento rapido di un eventuale aggressore.
Il fossato è stato realizzato secondo il profilo a V della fossa fastigata, con larghezza di 5 piedi in superficie e profondità di 3 piedi (1,50 ´ 0,90 m). Il terreno rimosso ha prodotto una cubatura di poco superiore ai 0,70 metri cubi per metro lineare, ed è stato disposto per formare un terrapieno (agger) a sezione trapezoidale con basi di 1,40 e 0,60 metri, e altezza di 0,70 metri. L’esperienza ha dimostrato che il terrapieno, per avere un minimo di consistenza, doveva senz’altro essere rinforzato con altro materiale, come pietre o tronchi d’albero.
Impiegando una media di 25 uomini non addestrati, il lavoro ha richiesto un tempo complessivo di circa 8 ore, spese nell’arco di due giorni successivi.
Se fossero stati disponibili gli uomini abitualmente impiegati (quasi 2 uomini per metro sui 50 metri dello scavo = 100 uomini) si può supporre per interpolazione un tempo di realizzazione cinque volte inferiore, pari quindi a circa due ore. I risultati sono quindi apparsi sostanzialmente in linea con le supposizioni teoriche.
2) Dopo aver sperimentato diverse soluzioni, si è giunti alle seguenti conclusioni:
- nelle operazioni di scavo ogni uomo ha bisogno di non meno di due metri di spazio, possibilmente tre;
- è utile suddividere l’area di scavo in sezioni larghe tre metri, ed assegnare ad ogni sezione di scavo una coppia di sterratori, uno attrezzato con pala e
tagliazolle, l’altro con
dolabra o piccone, che si alternano nel lavoro, riposando a turno;
- il personale rimanente può essere utilizzato per il reperimento e la preparazione del materiale supplementare (pali, rami,
ecc…) di rinforzo del terrapieno o per trasportare le ceste di terra, soprattutto quando lo scavo diventa più profondo;
- durante il lavoro, vestiario e armamenti non hanno dato luogo a problemi. Nessuno ha lamentato difficoltà di movimento durante il lavoro con la lorica segmentata, se non, in pochi casi, il riscontro di alcuni leggeri ematomi sulle braccia e ai fianchi dovuti ad una non adeguata “taglia” dell’armatura. Anche se scomodo, il gladio portato al fianco non ha impedito la funzionalità del lavoro.
3) Sono state impiegate diverse tipologie di utensili, principalmente dolabre, pale, tagliazolle e zappe, ricostruite dopo un attento studio dei più comuni reperti archeologici rinvenuti in prossimità degli insediamenti militari romani. Alcuni utensili, come i tagliazolle, sono stati appositamente ricostruiti alla forgia; altri utensili (pale, zappe e dolabre) sono stati modificati a partire da utensili moderni di struttura simile.
I tagliazolle, strumenti utilizzati per asportare le zolle di manto erboso superficiale, si sono rivelati pressoché inutili su terreni morbidi e con vegetazione priva di un consistente apparato radicale.
La dolabra si è dimostrata molto utile anche nella fase dell’allargamento dello scavo, per tagliare efficacemente sezioni intere di terreno, dimostrandosi non tanto una semplice combinazione di ascia e piccone, quanto uno strumento di grande utilità per lavorare il terreno, con la sua forma così simile al familiare “male e peggio” utilizzato dai moderni muratori.
Le ceste, in vimini o materiale analogo, per il trasporto della terra sono state poco utilizzate nel nostro caso, ma si ritengono indispensabili nel caso di scavi più
profondi.
4) È stata sperimentata in primo luogo la soluzione dei valli infissi verticalmente al suolo e legati tra loro con una fune. È apparsa subito evidente la difficoltà di piantare in profondità questi pali, requisito indispensabile per offrire un minimo di resistenza allo sfondamento, senza danneggiarli: la forma a doppia punta esclude che venissero infissi con una mazza o con altri utensili del genere; si potrebbe al massimo ipotizzare l’uso preventivo di un apposito utensile per preparare la sede entro cui andava inserito il
vallus.
Come cordame di collegamento si sono utilizzate funi in canapa naturale intrecciata a mano, che hanno fornito buona prova di resistenza all’acqua e al fango.
Pur non avendo potuto sperimentare direttamente la solidità della costruzione, a causa delle pessime condizioni meteorologiche, si è avuta la netta sensazione che i valli piantati verticalmente, per quanto profondamente infissi nella terra smossa, potrebbero essere travolti al primo urto, anche se legati strettamente.
Appare di una certa efficacia l’infissione dei valli sulla parete esterna del terrapieno, con un’inclinazione di 45 gradi rispetto al piano di campagna: l’operazione di montaggio si è rivelata estremamente rapida e si è avuta la netta sensazione che i tentativi di scalata del terrapieno potrebbero essere notevolmente rallentati dalla loro obiettiva maggiore insidiosità.
La soluzione “a riccio” si presenta senz’altro più efficace, anche se richiede più tempo per il montaggio.
È stata sperimentata anche la realizzazione di una palizzata alta 3 metri, limitatamente ad un tratto di circa 4 metri, che poteva costituire una forma di difesa più evoluta nel caso si avesse avuto più tempo a disposizione e nel caso di tempi di permanenza più lunghi. Nel tratto corrispondente si è lasciato tra fossato e terra di riporto un tratto di circa due piedi, all’interno del quale si è scavato un fossetto stretto e profondo circa 3 piedi. I pali sono stati infilati nel fossetto avendo cura di costipare con forza la terra di rincalzo. Il terreno di risulta del
vallum è stato poi addossato alla palificata e infine spianato e battuto per formare l’agger interno.
dott. Giuseppe Cascarino
Note sui partecipanti
La sperimentazione ha avuto luogo presso la zona di CastelGandolfo-Albano Laziale (Roma) nei tre giorni dal 16 al 18 settembre 2005.
Hanno partecipato le rappresentanze dei gruppi:
Cohors I Praetoria - Associazione Romars
Cohors III Praetoria - Associazione Culturale Cisalpina
Legio XXX Ulpia - Legio XXX Ulpia Traiana Victrix ONLUS
Note
1 - Virgilio, Eneide (7, 126)
2 - Plutarco, Phyrrus (16-5)
3 - Polibio, Historiae (VI, 26-42)
4 - Flavius Josephus, Bellum Judaicum (III, 86-87)
5 - Caius Julius Caesar, Commentarii De Bello Gallico (VII, 72-74),
6 - Flavius Vegetius Renatus, Epitoma Rei Militaris (I, 21)
7 - Flavius Vegetius Renatus, Epitoma Rei Militaris (I, 21-25 e III, 8)
8 - Flavius Vegetius Renatus, Epitoma Rei Militaris (III, 8)
9 - Flavius Josephus, Bellum Judaicum (III, 5, 1)
10 - Polibio, Historiae (XVIII, 18)
11 - Livius, Ab Urbe Condita Libri (XXXIII, 5)
12 - Cassius Dio (XVII, 63)
13 - Caius Julius Caesar, Commentarii De Bello Civili (I, 42)
14 - Livius, Ab Urbe Condita Libri (XXXIII, 6)
15 - Junkelmann, Die Legionen des Augustus
16 - Caius Julius Caesar, Commentarii De Bello Civili (III, 67)
17 - Caio Sallustio Crispo – Bellum Iugurthinum (III, 36)
Ulteriore bibliografia
Fonti classiche:
Hyginus Gromaticus – Liber De Munitionibus Castrorum (DMC)
Plutarco – Vite parallele
Pseudo Cesare – Bellum Africum (B.Afr.)
Pseudo Cesare – Bellum Alexandrinum (B.Alex.)
Studi sulle difese del campo Romano in generale:
Fabricius, Ernst – Some notes on Polybius’s descriptions of Roman camps – JRS, XXII, 1932, pp. 78-87
Gilliver, Catherine M. - Hedgehogs, caltrops and palisade stakes - Journal of Roman Military Equipment Studies, 4, 1993, pp.49-54
Junkelmann, Marcus - Die Legionen des Augustus: der römische Soldat in archäologischen - Mainz am Rhein, Philipp von Zabern, 1986
Lenoir, Maurice - Des fortifications du camp / Pseudo-Hygin; texte etabli, traduit et commente – Paris, Les belles lettres, 1979
Miller, M.C.J e Devoto, James Garry - Polybius and Pseudo-Hyginus: the fortification of the roman camp – Chicago, Ares, 1994
Peddie, John - The Roman war machine – Stroud, A. Sutton, 1994
Salvatore, John Pamment - Roman Republican Castrametation:a reappraisal of historical and archaeological sources – Oxford, B.A.R. 630, 1996
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