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I mille colori delle statue classiche
Ai Musei Vaticani ricostruite le colorazioni originali di opere risalenti all'antica Grecia e alla Roma imperiale.
di Paolo Liverani - Ispettore del reparto Antichità classiche dei Musei Vaticani
November 19th, 2004
A sentir parlare di "arte classica" le reazioni possono essere
differenti, ma in fondo è probabile che si provi un piccolo brivido pensando a
statue immacolate e un poco gelide. Peccato che questo sentire, radicato da
secoli nella nostra cultura, sia uno dei più colossali fraintendimenti che la
storia dell’arte conosca. Un greco o un romano che - per assurdo - potesse
visitare i nostri musei inorridirebbe di fronte a tanto pallore. D’altra parte
il visitatore moderno che si trovasse di fronte a una scultura antica conservata
con la sua policromia originaria, la prenderebbe per uno scherzo discutibile e
subirebbe una sorta di choc estetico.
Sia chiaro: pensare di ripristinare l’aspetto delle sculture esattamente
"come nuove" sarebbe una presunzione eccessiva. Ogni ricostruzione si
basa su una complessa serie di analisi, che integrano l’occhio
dell’archeologo con foto a luce ultravioletta o radente, con l’uso di
microscopia ottica e a scansione elettronica, con cromatografia a gas e liquida.
Le copie policrome così ottenute mantengono necessariamente una percentuale di
ipotesi che, a seconda della conservazione dell’originale, sarà ora più ora
meno elevata. Si potrà dunque discutere sul singolo dettaglio, ma
nell’insieme si tratta di uno sforzo che permette di sfatare vecchie
concezioni e di avere un’idea assai più verosimile della realtà antica.
Il "racconto" del colore inizia con l’arcaismo greco e subito ci si
accorge che il recupero della decorazione policroma non è un dettaglio
secondario, ma coinvolge il significato stesso della scultura.
Dovevano rappresentare
l’offerta di famiglie della fascia sociale più elevata dell’Atene
dell’epoca e vennero definite korai, in greco "fanciulle". Tra
queste era anche la nostra kore, vestita di una mantellina sopra una veste lunga
che si apriva sul davanti, al di sotto della cintura, a mostrare la gonna.
Qualcosa, però, non era del tutto chiara: l’abito lineare e severo, infatti,
era un po’ troppo all’antica se paragonato allo stile della testa (530-520
a.C.).
Esaminando la statua con particolari tecniche fotografiche sono saltati fuori
dettagli interessanti: la luce radente ha permesso di riconoscere i sottili
graffiti preparatori delle figurazioni dipinte e la luce ultravioletta ha fatto
emergere tracce di colore ormai invisibili a occhio nudo. Si sono così
ricostruiti i disegni della veste e si è recuperato il fregio ad animali e
cavalieri sulla gonna. Il vestito "all’antica" non era dunque un
attardamento della moda, ma una veste cerimoniale di origine orientale (l’ependytes)
utilizzato per la dea Atena o, forse, per Artemide, pure venerata
sull’Acropoli. Perdiamo dunque la «kore del peplo» per guadagnare una «dea
con ependytes».
Sorprendenti per altri motivi sono le ricostruzioni delle statue dei frontoni
del tempio di Atena Aphaia sull’isola di Egina, il vanto della Gliptoteca di
Monaco, raffiguranti una battaglia fra Greci e Troiani. La scultura più
completa dal punto di vista del colore è il cosiddetto Paride, un arciere
troiano inginocchiato che sta per scoccare la sua freccia micidiale. Veste una
giacchetta di cuoio attillata e senza maniche, decorata da bordure e da una
fascia, mentre al di sotto indossa una specie di "pullover". Le
maniche sono fittamente decorate di motivi romboidali che si incastrano gli uni
negli altri, giocati sul rosso, verde malachite, blu e giallo, con un effetto da
far invidia a un moderno designer, mentre i pantaloni hanno un disegno simile,
che segue elasticamente la modulazione delle membra asciutte e vigorose.
Passando all’età romana troviamo due casi molto diversi di ritratti
imperiali. Uno è l’Augusto di Prima Porta dei Musei Vaticani, la statua più
famosa di questo imperatore, trovata nella villa della moglie Livia poco fuori
Roma, sulla via Flaminia. Anche a distanza e in penombra non si può sbagliare:
solo l’imperatore portava quel mantello rosso porpora, un tono squillante
ottenuto con una lacca organica finora raramente identificata sulla scultura. È
il paludamentum, segno inconfondibile dell’autorità militare, che Augusto
portava solo sul campo e che mai poteva indossare in città, nella vita civile.
Sulla corazza, il cui fondo conserva il colore bianco e luminoso del
preziosissimo marmo di Paros, spiccano invece in blu, rosso e marrone i rilievi
che raccontano la restituzione ai Romani delle insegne che i Parti avevano
strappato all’esercito di Crasso, distrutto nella battaglia di Carrhae. Era
uno dei vanti dell’imperatore averle recuperate per via diplomatica,
rimuovendo una grave onta senza ricorrere a ulteriore spargimento di sangue. Il
colore, in questo caso, sottolinea solo gli elementi salienti per comunicare nel
modo più chiaro e immediato il messaggio politico dell’opera, con tecnica
quasi pubblicitaria, anche a costo di violare le convenzioni realistiche
lasciando bianca la corazza e la pelle.
Tutto al contrario avviene nel ritratto di Caligola della Gliptoteca Ny
Carlsberg di Copenaghen, dove le tracce di incarnato hanno permesso di
ricostruire una pelle vivacemente colorata. L’originale conserva ancora
l’occhio sinistro con ciglia, sopracciglio e iride, mentre le frange dei
capelli sono delineate con sottili tratti di pennello a integrare le ciocche che
lo scultore aveva realizzato plasticamente. Per ottenere la copia destinata
all’esperimento di colorazione, si è ricorsi addirittura a una scansione
laser dell’originale: sulla base di questi dati una fresa guidata dal computer
ha scolpito un duplicato in marmo, per non danneggiare con calchi tradizionali i
resti di colore.
Per dare un’idea dell’evoluzione del gusto cromatico romano è esposto un
sarcofago paleocristiano dei Musei Vaticani di cui un recentissimo restauro
oltre alla policromia ha recuperato la doratura: nelle scene campestri il vello
delle pecore al pascolo è finemente tratteggiato in oro a suggerire una
vibrazione luminosa che, vista alla fiamma tremolante delle lucerne nel
sepolcro, doveva conferire un’aura particolare al rilievo. Chiude la mostra il
ritratto di Ariadne, moglie dell’imperatore bizantino Zenone: l’imperatrice
che vide la caduta dell’impero romano d’occidente. Un volto dallo sguardo
perforante grazie alle pupille dilatate, ottenute mediante inserti di pietra
nera, e coronato dal copricapo purpureo e dorato, colorazione di cui restano
ancora tracce piuttosto evidenti.
Visto così il mondo antico ci appare molto meno (neo)classico. Oggi che si è
consumata la frattura tra radici greco-romane e modernità c’è almeno questo
vantaggio: la possibilità rivedere le prime con occhio libero da preconcetti
per esplorarne lati nonostante tutto ancora nuovi, come "opera
aperta", dunque veramente classica.
Augusto ritrova il suo colore
Statue antiche ridipinte usando le tinte originarie
Marmi non più bianchi o neri: esposte ai Musei Vaticani una ventina
di sculture greche e romane
Colonnelli Lauretta
Il paragone più calzante lo offre Paolo Liverani, curatore della mostra: «Questa
esposizione mi ricorda "Il cielo sopra Berlino" di Wenders, dove
gli angeli vedevano in bianco e nero e gli uomini a colori. Noi ci troviamo
in una situazione angelicata rispetto alle statue antiche, abituati a
vederle ed ad apprezzarle nel loro bianco immacolato. Ora proviamo ad
umanizzarci un po' , riscoprendole nel loro colore originale». Il primo
impatto è scioccante. Il leone che accoglie il visitatore, con il corpo
giallo, la criniera azzurra e i baffoni rossi, sembra più una maschera
balinese che una statua greca. E invece l'originale, in marmo bianco,
proviene da Loutraki (Corinto) e risale al 550 a.C. Ma gli archeologi, già
nei secoli passati, hanno notato residui di colore nei punti più incavati e
nelle zone più porose della pietra. E da tempo si sa che gli artisti dell'
antichità decoravano con tinte accese non solo le statue, ma anche i
frontoni dei templi o i lastroni in marmo di edifici pubblici e privati. Nei
libri di storia dell' arte il tentativo di ricostruire questi colori era
stato già fatto sulle immagini fotografiche o sui disegni. Ma nessuno aveva
ancora avuto il coraggio di realizzare la copia tridimensionale delle
sculture e di colorarle con pigmenti ricreati con le stesse tecniche di
duemila anni fa. Ora l' ocra gialla e la lacca di garanza, l' azzurrite e il
cinabro ridanno colore non solo ai mantelli e alle tuniche ma anche ai volti
di imperatori e divinità, guerrieri e fanciulle. E all' improvviso un mondo
che siamo abituati a pensare austero e riflessivo, si ribalta completamente
e diventa allegro come un circo. Sono una ventina le opere ricostruite a
colori dai Musei Vaticani in collaborazione con la Gliptoteca di Monaco e la
Gliptoteca Ny Carlsberg di Copenaghen. Tra le altre, si possono ammirare l'
Augusto di Prima Porta, l' arciere e l'Atena del frontone ovest del tempio
di Aphaia a Egina, la Kore col peplo ritrovata sull' Acropoli di Atene. E
proprio guardando quest' ultima, con il suo bel vestito giallo decorato di
rosso e verde, i capelli ramati come se fossero trattati con l' henné, le
labbra scarlatte e le sopracciglia ben disegnate con la matita nera, viene
in mente l' Elena di Euripide, in cui la regina si dispera per i guai che la
sua bellezza ha provocato e si augura di perderla così come viene
cancellato il colore da una statua. Testimonianza non solo che le sculture
erano colorate, ma anche di quanto fossero considerate brutte quelle
bianche.
I COLORI DEL BIANCO. MILLE ANNI DI COLORE NELLA SCULTURA ANTICA. Musei
Vaticani, tel.06.69883041. Fino al 31 gennaio, dal lunedì al venerdì dalle
8.45 alle 13.45. Ingresso gratuito. Catalogo De Luca.
Roma, la scultura ridipinta ai Musei Vaticani
L'originaria policromia di una ventina di statue antiche . "I colori
del bianco.
"I colori del bianco. Mille anni di colore nella scultura antica"
è l'interessante rassegna, ospitata nella Sala Polifunzionale dei Musei
Vaticani sino al 31 gennaio 2005, attraverso la quale si è voluto
riproporre l'aspetto originario di alcune delle più celebri sculture in
marmo dell'antichità, ristabilendone l'antica e affascinante policromia. La
considerazione più calzante circa questo ambizioso progetto la offre Paolo
Liverani, il curatore della mostra: "Questa esposizione mi ricorda 'Il
cielo sopra Berlino' di Wenders, dove gli angeli vedevano in bianco e nero e
gli uomini a colori. Noi ci troviamo in una situazione 'angelicata' rispetto
alle statue antiche, abituati a vederle e ad apprezzarle nel loro bianco
immacolato. Ora proviamo ad umanizzarci un po', riscoprendole nel loro
colore originale". Da tempo gli studiosi sono concordi nel sostenere
che gli artisti dell'antichità decoravano con tinte accese non solo le
statue, ma anche i frontoni dei templi o i lastroni in marmo di edifici
pubblici e privati. Nei libri di storia dell'arte, il tentativo di
ricostruire questi colori era stato già fatto sulle immagini fotografiche o
sui disegni. Ma nessuno aveva ancora "avuto il coraggio" di
realizzare la copia tridimensionale delle sculture e di colorarle con
pigmenti ricreati con le stesse tecniche di duemila anni fa. L'ocra gialla e
la lacca di garanza, l'azzurrite ed il cinabro ridonano colore ai mantelli,
alle tuniche, ai volti di divinità, imperatori, guerrieri e fanciulle:
all'improvviso, un mondo che siamo abituati a percepire come austero e
riflessivo, si ribalta completamente e diventa allegro come un circo. Tra le
statue più celebri, il cosiddetto "Augusto di Prima Porta",
normalmente esposto nel Braccio Nuovo dei Musei Vaticani: realizzato tra il
12 e l'8 a.C., il marmo di oltre due metri di altezza rappresenta
l'imperatore in veste di capo militare, in piedi, a capo scoperto e con il
braccio alzato mentre arringa le truppe dopo la vittoria. La tunica, il
mantello e la corazza sono resi con scrupolosa minuzia; si riscontra una
dovizia nei dettagli un tempo enfatizzata dalla policromia, ricostruita nel
calco moderno, che sottolineava i rilievi della corazza (la restituzione
delle insegne che i Parti avevano strappato a Crasso). Un capitolo della
mostra è dedicato anche alla storia degli studi sulla policromia antica: le
sculture, dalle statue ai rilievi (compreso il rilievo continuo che avvolge
il fusto della Colonna Traiana), erano ricoperte da una sorta di pittura e
tempera, lavata via dagli agenti atmosferici e dal tempo. In origine il
rosso cinabro e gli altri colori minerali come il blu (azzurrite) e il verde
(malachite) ebbero anche la funzione di proteggere il marmo dalle
intemperie, mentre le cosiddette "terre", come il marrone e
l'ocra, furono ben presto cancellate dalla pioggia. E' stata la conoscenza
dei colori, insieme alla tecnica della luce radente, a consentire agli
studiosi la ricostruzione cromatica delle opere.Si tratta di un'operazione
che consente di promuovere un'idea più realistica dell'arte antica,
abbandonando la convinzione che la scultura greca e romana fosse di colore
bianco, permettendo al visitatore di compiere un vero e proprio
"viaggio a ritroso nel tempo".
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